Noi, naufraghi

Uma visão multilingue das consequências das alterações climáticas

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PRIMO RACCONTO

C'è pioggia e pioggia. Ci sono giorni in cui piove piano ed è bello restare in silenzio ad ascoltare. Di solito torno a casa tutto infradiciato; la mamma, dopo un breve sguardo ammonitore, mi bacia e all'orecchio mi sussurra che la cioccolata è pronta: "J'ai fait du chocolat chaud" dice lei. Io faccio un'espressione tutta sorpresa, lei ride.

Ci sono però anche giorni in cui piove forte e il cielo è nero, di giorni così se ne erano visti parecchi a Genova. È sempre notte, anche quando non lo è, e quella domenica pareva non volesse proprio fare eccezione. Al cielo non importava che fosse il compleanno di papà.

" Il tombe des cordes aujourd'hui!" piagnucolò la mamma.

"Seulement aujourd'hui? Ça fait deux semaines qu'il n'arrête pas de pleuvoir" le rispose zia Manon.

Mia mamma e sua sorella, cioè mia zia, parlavano sempre così, in quella lingua dai suoni melodiosi che io ho imparato a comprendere, un po' meno a parlare. È francese.

Decisi di avvicinarmi a mio nonno, venuto dall'Argentina solo per l'occasione, perché sì… non sempre un figlio festeggia 40 anni. Era alla porta, ancora intento a togliersi l'impermeabile. Accanto a lui papà, che come accade spesso, parlava la lingua di quando era bambino, così almeno mi diceva lui. Quando ero piccolo mi incantavo ad ascoltarli, io sulle gambe del nonno Miguel e lui tutto preso da qualsiasi cosa mio papà gli dicesse. Li osservavo e lo facevo con attenzione, mi concentravo sulle singole parole, provavo a capire, mi sforzavo, finché poi ho iniziato a farlo senza accorgermene.

"Estoy bien. ¿Y tú? ¿Qué has hecho esta mañana?" domandò gioviale nonno Miguel.

"¡Y qué puedo hacer si no deja de llover! Estuve todo el día en casa, esperando a que llegarais" gli rispose papà, dal tono sembrava scocciato. “¿Qué tal el viaje?”

"Fue largo. Pero... ¿Dónde está mi nieto?" disse guardandosi tutt’attorno, lo sguardo vispo, il sorriso pronto sulle labbra.

"¡Abuelito!" gli saltai in braccio prendendolo un po’ alla sprovvista. Volevo molto bene a mio nonno. Lo sentivo ogni sera, al telefono.

Quel pomeriggio passò veloce, tra chistes, blagues e tante risate. Almeno finché non notai uno spostamento con la coda dell’occhio: era Pomme, il mio peluches-elefante. Era agitata e lo notai da come si muoveva. Scuoteva la coda a destra e a sinistra, e non faceva che barrire. Le sue zampe erano piccole, ma era pur sempre un’elefantessa e il suo passo lo sentivo rimbombare sul pavimento, sotto le scarpe. Temevo si sarebbe fatta male, forse urtando un qualche soprammobile in vetro della mamma. Cercai il suo sguardo, che incerto mi trovò. Poco dopo, la vidi avvicinarsi cauta.

“Mi dici cos’hai?” le domandai con urgenza. Ero sinceramente preoccupato. Pomme era la più solare tra i miei amici-peluches.

Barrì.

“E perché sei nervosa?” insistetti io.

Barrì, più piano, quasi si fosse fatta timida. Non era da lei.

“Non lo sai?”

Barrì ancora, più forte.

“Mmh… avverti un pericolo, eh? Io credo che invece tu e gli altri possiate stare tranquilli. È solo un po’ di pioggia”. La rassicurai accarezzandole il dorso e le soffici orecchie. Oramai erano grandi e avrebbero continuato a crescere. La mia dolce Pomme.

Era titubante, e la cosa mi turbava, ma seguì comunque il mio consiglio. La vidi raggiungere gli altri con fare battuto, il passo lento e incerto. Quel giorno li avevo lasciati tutti in cameretta, ma sulla porta socchiusa di tanto in tanto gettavo uno sguardo timoroso: Pomme, l’elefantessa; Baron, il gatto bianco; Cyril, la scimmia e Simon, il…

DOV’È IL TOPO? Dov’è il mio topolino?

Guardai ovunque. Gli occhi mi caddero sul divano, sulle sedie, sulle poltrone, sui tappeti che coprivano il parquet, sui davanzali delle finestre. Non lo vedevo. In ansia per il mio Simon, iniziai a chiamarlo ad alta voce: “Simon? SIMON? Onde é que estás Simon?”

“Mon cœur, que dis-tu ?” disse la zia.

“T’inquiète pas, Manon. Il appelle juste sa peluche”. La mamma era sconfortata. Non capiva che io avevo degli amici, amici-peluche, che mi ascoltavano e capivano. Non ero pazzo, ma da tempo soppesavano l’idea di mandarmi da uno “specialista”. Così lo chiamavano.

“Mais… Il parle encore avec ses doudous? Tu sais que c’est pas normal, n’est-ce pas?”

Feci finta di nulla, avevo delle priorità. Girovagai per tutto il salotto, sperando che Simon fosse uscito dalla porta socchiusa della mia cameretta senza andare troppo lontano. Non sentendolo rispondere ai miei richiami, l’agitazione non faceva che crescere. Ero sempre più preoccupato. Anche in questo caso, non era proprio da lui, non dal mio Simon, tanto intelligente e disciplinato!

“SIMON? Não brinques, estou preocupado! Sai daí, anda!” Sarebbe stato inutile chiamarlo in qualsiasi altra lingua poiché comprendeva solo il portoghese. La famiglia che aveva abitato in questo appartamento prima di noi era infatti brasiliana e Simon aveva tanto desiderato di poter comunicare con loro da mettersi a studiarne la lingua.

Mentre gli occhi di tutti erano su di me, io cercavo con lo sguardo, con i piedi, con le mani. Scansavo i cuscini e le sedie, chiedevo al nonno di alzarsi dalla poltrona e alla zia di controllare nella sua borsa. Il cuore mi pulsava forte al pensiero che fosse uscito sotto quel brutto temporale.

Poi lo vidi.

Percorse rapido il perimetro del salotto, si fermò giusto il tempo necessario per accertarsi che lo avessi visto, poi tornò a correre. Con sé aveva una valigia, una minuscola valigia straripante, chiusa a malapena. Vedevo una sciarpa rossa uscirne fuori. Con un piede, gli bloccai la strada.

“O que estás a fazer? Há horas que ando à tua procura!” Avevo il fiato corto.

Simon non rispose. Lo vidi darsi una brusca zampata in fronte, come se avesse dimenticato qualche cosa, e subito corse verso la cameretta. Mi scusai con il resto della famiglia e lo seguì. Sbrigativo, chiusi la porta e li guardai uno a uno.

“Qualcuno può dirmi cosa succede?” Ero agitato ed era evidente dal tono di voce che avevo usato.

“L’acqua… si sta alzando. Dobbiamo andarcene” disse Cyril, che subito dopo si occupò di tradurre la conversazione in portoghese per Simon. Anche lei era nervosa, non faceva che mangiare banane e, dalle bucce sul pavimento, doveva averne ingurgitate parecchie.

Baron, il gatto, era immobile. Lo sguardo fisso sulla finestra, sulle gocce che scendevano lente, sui vetri rigati. Bastava un tuono per rizzargli il pelo.

“È solo un po’ di pioggia. Niente che non si sia visto prima… e dove andate poi?” chiesi sbrigativo, l’ansia crescente. I miei amici se ne sarebbero andati, non uno sarebbe rimasto con me. Le valigie erano pronte, tutte accatastate accanto alla porta. Loro erano coperti alla benemeglio: una sciarpa, un cappello, due stivaletti. Erano pronti. Sembrava la fine di un’epoca. Qualcosa, non so cosa, giungeva al termine.

Baron sembrò riscuotersi e venne a farmi le fusa. Gli occhi di tutti erano su di me.

“Ritorneremo” disse Cyril determinata.

“A não ser que queiras vir connosco” aggiunse Simon, l’espressione speranzosa.

Se ne andarono, lasciandomi solo con la mia famiglia. Quella stessa sera, sul tardi, il telegiornale trasmise un’emissione straordinaria, interrompendo tutte le trasmissioni in onda. La mia famiglia era incredula, ma glielo avevo detto io… I miei amici erano reali e non avevano avuto torto. Si avvicinava un alluvione. Ora era troppo tardi per uscire di casa, potevamo solo aspettare i soccorsi, che non sarebbero arrivati di lì a poco. Di persone da salvare ce ne erano parecchie. Sentivo i vicini affacciarsi ai balconi e urlare: “Siamo qui. Aiutateci!”. Noi rimanemmo in salotto, senza luce, ma tante erano le candele sparse per la casa. Provammo a stemperare la paura condivisa con dei giochi da tavolo, finché non ci addormentammo. Lo scenario che vedemmo il giorno seguente avrebbe tormentato il nostro sonno per parecchi anni a seguire, ne ero convinto. Ancora oggi ricordo bene la difficoltà ad addormentarmi, zia Manon più scioccata dal fatto che i miei peluches avessero avuto ragione che non dalla catastrofe in cui ci trovavamo, e mamma che mi cullava, piano, mormorando: “Dors mon petit enfant…”, ma soprattutto ricordo quello che vidi il mattino seguente.

L’acqua era ovunque. Genova era diventata una piscina e l’asfalto delle strade era scomparso. Rimanevano solo gli ultimi piani dei palazzi, tra cui il mio. Rimanevamo noi e le nuvole. Tutto intorno era grigio, sia l’acqua che celava i pianterreni, sia il cielo, plumbeo e minaccioso. Quel mattino però a svegliarmi fu una carezza della mamma e un bussare giocoso sui vetri delle finestre. I soccorsi erano lì e ci avrebbero salvati.

ELISABETTA LAZZERI